Due questioni filologiche su Paolo di Tarso

«Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto i taccuini» (Seconda Lettera a Timoteo, IV 13). 

La Seconda lettera a Timoteo è, insieme alla Prima Lettera a Timoteo e alla Lettera a Tito, una delle tre “lettere pastorali” incluse nel Nuovo Testamento, in cui Paolo si rivolge ai suoi più stretti collaboratori, Timoteo e Tito, ai quali aveva affidato il compito di seguire varie comunità cristiane da lui fondate in seguito alla diaspora giudaico-ellenistica in Asia Minore; tuttavia, nonostante in essa l’autore si identifichi con Paolo di Tarso, la moderna critica biblica ha contestato tale paternità, considerando questa lettera pseudoepigrafica, ovvero non attribuibile a Paolo e scritta in un’epoca successiva all’Apostolo, tra la fine del I secolo e l’inizio del II secolo.

Nonostante ciò, la citazione su riportata riveste una notevole importanza nella storia dell’evoluzione del materiale scrittorio: in essa, infatti, lo Pseudo-Paolo chiede a Timoteo di portargli i biblía (i libri) e le membranae: poiché bìblos, che inizialmente indicava la pianta dalla quale si ricavava la carta, ovvero il papiro, successivamente per naturale evoluzione passò a designare il prodotto finito della pianta, cioè il rotolo e quindi il libro, membranae va inteso come “taccuini di pergamena” e l’uso del termine latino da parte di Paolo conferma la teoria che il taccuino di pergamena sia stato un’invenzione romana. Dunque, all’interno di una delle svolte più decisive della storia dell’uomo, ovvero il passaggio dal rotolo al codice, questa testimonianza di Paolo costituirebbe un argomento a favore della cosiddetta “ipotesi occidentale”, secondo la quale il codice sarebbe nato a Roma: qui, prima della metà del I a.C. i Romani fecero un passo che si rivelò in séguito decisivo, sostituendo al gruppo di fogli lignei sovrapposti e incernierati, che chiamavano codex, un mazzetto di fogli di pergamena cuciti o legati insieme, che presentavano vantaggi quanto a leggerezza, trasportabilità e maneggevolezza. Questi rozzi taccuini di pergamena, che i Romani chiamavano membranae, si diffusero rapidamente nel Vicino Oriente, come appunto ci testimonia la lettera pseudo-paolina. Da tale rozzo codice di pergamena usato per le note quotidiane si passò, molto lentamente e gradualmente, all’impiego di un codice, di pergamena o di papiro, per la registrazione permanente di opere letterarie, dunque per la trasmissione della cultura. 

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«Seneca a Paolo, salute!

Salve, mio Paolo carissimo. Se un uomo così grande e prediletto da Dio sotto ogni aspetto sarà, non dico congiunto, ma tutt’uno con me e con il mio nome, questa sarà la cosa migliore per il tuo Seneca. Essendo tu vertice e vetta d’ogni più alto monte, non vuoi che mi rallegri se sono così vicino a te tanto da esser considerato un altro te stesso? (…) Infatti, il mio posto è anche il tuo, e vorrei che il tuo prestigio fosse anche il mio. Sta’ bene, mio carissimo Paolo» (Epistola XII).

Lo scambio di lettere tra Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C.), filosofo e consigliere dell’imperatore Nerone, massimo esponente dello stoicismo latino, e San Paolo, sulla cui natura pseudoepigrafica è oggi concorde la maggior parte della comunità scientifica, è senza dubbio uno dei documenti più enigmatici della letteratura cristiana antica: una collezione di quattordici brevi lettere in latino che ha raccolto l’attenzione dei Padri della Chiesa prima, del mondo umanistico poi, e che ha continuato a stimolare in maniera ininterrotta la curiosità e la riflessione degli studiosi fino all’età moderna. Questa corrispondenza, trasmessa da oltre 400 manoscritti – il più prestigioso dei quali fu curato nel IX sec. da Alcuino di York e dedicato a Carlo Magno – conservati in diverse sedi europee, è frutto di una leggenda sorta nella tarda antichità, allorquando il filosofo guadagnò presso i Cristiani un prestigio altissimo, che durò per tutto il Medioevo e oltre, fino a influire profondamente sulla cultura gesuitica e su quella protestante.

In effetti, Seneca dimostra una spiccata e profonda religiosità: nelle sue opere è viva l’intimazione al perfezionamento mediante la virtù e la necessità di un’energica esortazione morale nella lotta contro il male e le passioni, il che ha alimentato la sua considerazione quale “corrispettivo pagano” della dottrina cristiana così fervidamente esposta nelle lettere di San Paolo. Infatti, gli autori cristiani riconobbero molto presto la loro affinità d’animo, tant’è che alla fine del II secolo d.C. l’apologeta Tertulliano lo definì Seneca saepe noster, ovvero “Seneca spesso nostro”, proprio per la presenza di elementi nel pensiero di Seneca assonanti con l’etica cristiana.

Pertanto, al di là dell’inautenticità della corrispondenza, è interessante il tentativo del falsario, autore dell’epistolario, di attestare la piena legittimità del Cristianesimo di inserirsi nello sviluppo della cultura classica: il carteggio, quindi, può essere letto come una sorta di simbolo della difendibilità dell’alto contenuto morale e spirituale del pensiero sia di Seneca che di San Paolo, dunque a prescindere dalla loro fede, a dimostrazione della possibilità di fruizione ed apprezzabilità dei loro scritti da parte di tutti gli uomini, sia cristiani che non, in uno spirito di condivisione oltre ogni separatismo culturale e religioso, come sembrerebbe rivelare anche la similarità della loro morte: ambedue, infatti, furono giustiziati per volontà di Nerone, l’uno come stoico, l’altro come martire cristiano. 

Adele

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