Paolo di Tarso: morsi velenosi, tarantismo e altre curiosità

Ogni casalese ben conosce fin dall’infanzia l’esperienza di vita e l’importanza storica di Paolo di Tarso, per la vivacità del suo culto nel nostro paese. Tutti noi sappiamo che egli fu il primo missionario del Vangelo tra i pagani greci e romani, così come conosciamo i numerosi simboli a cui è associato: la caduta e folgorazione sulla via di Damasco, la spada con la quale è raffigurato, strumento del suo martirio e simbolo della forza della sua parola, la sua proverbiale calvizie con il volto severo e lo sguardo risoluto e tenace. Ma a che cosa si riferisce il noto detto casalese: “Prima de verè ru serpe chiami Santu Paulu?”.

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Ebbene, l’episodio paolino che più ha inciso nella cultura popolare si trova in Atti degli Apostoli, XVIII 1-6, nel racconto del viaggio di Paolo a Malta nell’anno 59 d.C.: “E dopo essere scampati dal pericolo, si venne a sapere che quell’isola si chiamava Malta. Gli abitanti si dimostrarono di un’umanità non comune verso di noi: ci raccolsero tutti intorno ad un gran fuoco che avevano acceso, a causa della pioggia che era sopraggiunta e del freddo. Avendo Paolo raccolto e gettato sul fuoco un fascio di legna, una vipera, per effetto del calore, schizzò fuori e si avventò alla sua mano. Quando gli abitanti videro pendere dalla sua mano quel rettile, dissero fra di loro: «Costui dev’essere certo un omicida, perché, scampato dal naufragio, la giustizia non vuole che sopravviva». Paolo scosse il rettile sul fuoco e non ne risentì alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare o cader morto all’istante; ma dopo aver atteso a lungo, vedendo che non gli veniva nessun male, mutarono parere e dissero che era un dio”. Questa circostanza si è profondamente impressa nella devozione popolare, essendo già radicata nel paganesimo mediterraneo mediante l’antico culto di Ercole, protettore pagano contro i serpenti. Il serpente, uno dei più antichi simboli della cultura mediterranea, incarna, da sempre, le malefiche potenze infere; esso ha in sé il potere creativo e distruttivo, rigenerandosi senza morire e possedendo il veleno che annienta; in particolare, per il mondo contadino, esso rappresentava e rappresenta il pericolo, il maleficio annidato nelle pieghe di una natura non sempre benigna.

In virtù dell’intermediazione di Paolo, la vipera di Malta ha perso il proprio veleno. 

Secondo la leggenda maltese, la terra di Malta è divenuta antidoto contro i veleni e i nati nella notte del 29 giugno, o in quella dal 24 al 25 gennaio, le due feste che ne ricordano la morte e la conversione, sono indenni da ogni morso di animale velenoso e hanno il potere di guarire chi ne è stato avvelenato: è questa la “stirpe” dei sampaolari, guaritori girovaghi in grado di sanare con la saliva i morsi mortali dei serpenti, in nome di una loro discendenza diretta dal Santo. In realtà, la tradizione dei sampaolari si è sovrapposta ad altre numerose e più antiche, esistenti fin dai tempi preistorici e connesse ai culti del serpente che, nell’area mediterranea, sono sempre stati diffusissimi, soprattutto per la fornitura dei veleni molto usati a scopo terapeutico e magico. Varrone e Plinio raccontano di una popolazione africana, gli Psilli, che avevano la capacità di guarire qualunque morso velenoso con lo sputo; Plinio ci informa che erano dotati di un simile potere anche i Marsi, antico popolo di stirpe sabellica stanziato nell’altopiano appenninico, grandi conoscitori di erbe medicinali e noti per la loro arte di domare e incantare i serpenti. L’Apostolo delle Genti trascorse tre mesi sull’isola e si rifugiò in una grotta nei pressi della cittadina di Rabat, divenuta in seguito il luogo di culto e di provenienza della miracolosa Terra Sigillata Melitensis, o Terra Sancti Pauli, dalle presunte proprietà curative e pertanto impiegata in polvere come componente medico nel trattamento dei morsi velenosi di serpenti, scorpioni e ragni, oppure lavorata in pasta dura e trasformata in medaglie, statuette, vasi e coppe, come amuleti. Un altro antidoto legato al Santo erano le cosiddette glossopetre, ritenute le lingue dei serpenti pietrificati dal Santo sull’isola e considerate in qualche modo “benedette”, per un effetto rivulsivo ben conosciuto nella magia naturale, dunque adoperate come “talismani” contro i morsi velenosi; si tratta, in realtà, di denti di squalo fossili che abbondano sull’isola, racchiusi nella roccia maltese. Tuttora, nei due comuni siracusani di Solarino e Palazzolo Acreide, frequentati in passato da manodopera maltese, sono presenti dei suggestivi culti legati alla simbologia del serpente: qui si trovano i ciaràuli (dal greco keraulés, cioè “suonatori di corno”, poiché anticamente questi realizzavano i loro prodigi con l’aiuto di uno strumento musicale), una misteriosa istituzione siciliana di terapeuti, maghi, indovini, in grado di guarire dai morsi velenosi. I ciaràuli sono dei predestinati che hanno ricevuto facoltà taumaturgiche dal Santo, che esplicano attraverso la loro saliva, accompagnandosi  con una preghiera segreta detta “ciarmu”: «San Paulu ciaràulu, ammazza a chissu ca è nnimicu di Diu e sarva a mia ca su’ figghiu di Maria»; il riferimento a Maria si spiega con l’impotenza del serpente contro la Vergine, come spesso mostra la nostra iconografia, che la rappresenta nell’atto di schiacciargli la testa. 

Il ruolo culturale più affascinante della figura di Paolo lo lega ad un fenomeno storico-religioso, peculiare della religiosità meridionale: il tarantismo.

Paolo
Tarantola

L’Apostolo, nei rituali coreutico-musicali, era invocato quale guaritore dei “tarantolati”, ovvero i colpiti dal morso della tarantola: «Ahi Santu Paulu meu de le tarante!». Ma la Chiesa, percependo il tarantismo come scia del dionisismo indigeno, vitale nell’area salentina e assimilando le tarantolate alle menadi dionisiache, non poteva accogliere dei riti in cui tali donne ondeggiavano le lunghe chiome scomposte al ritmo indiavolato della tarantella. Ecco che la Chiesa si serve del ruolo esercitato sul rituale musicale dalla figura di San Paolo per sterilizzare la valenza eversiva della possessione. A partire dal Settecento, ha inizio il lungo processo di distruzione del tarantismo mediante la cappella di San Paolo in Galatina: qui infatti, annesso alla casa che si credeva di Paolo, si trovava un pozzo di acqua “miracolosa”, presso il quale i tarantolati venivano portati a bere per riceverne la grazia e così guarire. Amputato di tutti i simbolismi musicali e di evocazione, lentamente il tarantismo si spoglia di ogni dignità ed efficacia culturale: l’Apostolo delle Genti, ormai, è strumentalizzato ad esorcista contro i tarantolati.

Un altro aspetto legato a San Paolo mette in relazione l’invocazione alla sua protezione con un antico rito previsionale, dalla valenza quasi magica.

«Delle calende non me ne curo purché a san Paolo non faccia scuro» è un antico proverbio popolare che spiega il giorno della conversione di San Paolo, il 25 gennaio, come un giorno “di marca” praticato dalle comunità pagane e rurali per leggere i segni della natura e fare previsioni; ed infatti in questo giorno, chiamato “San Paolo dei segni”, si usava trarre i pronostici meteorologici per tutto l’anno, esponendo all’aria aperta gusci di noci o cipolle associabili ai mesi dell’anno, con del sale, che sciogliendosi o meno avrebbero predetto pioggia o tempo secco e asciutto. Ha, probabilmente, contribuito alla diffusione di questo uso la coincidenza della festività del Santo con il periodo iniziale dell’anno. 

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Il patrimonio culturale-popolare delle tradizioni religiose è un affascinante amalgama di leggende ricamate da quel desiderio di comprensione del divino cui ogni popolo da sempre aspira, in risposta ai propri sogni e aspettative. È un modo di tradurre la religiosità in un linguaggio più vicino e tangibile, dagli effetti benefici sui rischi sempre incombenti sulla vita di ognuno e più affettuosamente presente nella dura dimensione quotidiana. Del resto, la festa di San Paolo non è forse, per noi casalesi, sinonimo di convivialità e fratellanza compaesana? Anche la valorizzazione di questo aspetto “sociale” risponde al nostro fragile bisogno umano di percepirlo realmente presente nel nostro vissuto, per sentirne più profonda la sua vicinanza e protezione. 

Adele Migliozzi

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