L’Inno di Mameli (Il canto degli italiani) ufficialmente inno d’Italia

Da ieri 15 novembre, l’inno di Mameli, universalmente noto come Fratelli d’Italia, diventa inno ufficiale della Repubblica italiana, ma con il titolo originario di Il canto degli italiani. Ma come, qualcuno dirà, non lo era già?

Ebbene no, i versi immortali di Goffredo Mameli, composti in epoca risorgimentale e musicati a passo di marcia da Michele Novaro, che per 71 anni hanno accompagnato cerimonie, parate militari, festival ed eventi sportivi come le partite della Nazionale di calcio, in realtà era solo un inno “provvisorio”, e questo sin dal 1946. In tre legislature il Parlamento ha provato a renderlo definitivo, ma invano. Pare fosse un’impresa sovrumana, fino a ieri quando la commissione Affari costituzionali del Senato ha approvato in sede deliberante il disegno di legge per la sua istituzionalizzazione, dopo che l’omologa commissione alla Camera aveva dato il suo ok al provvedimento il 25 ottobre scorso.

 

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Fratelli d’Italia
L’Italia s’è desta,
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.

Stringiamoci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.

Stringiamoci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci,
L’unione, e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natio:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?

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Stringiamoci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.

Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il cuore, ha la mano,
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.

Stringiamoci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
Il sangue Polacco,
Bevè, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.

Stringiamoci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.

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L’Inno, sia pure con l’enfasi retorica tipica di quegli anni, è tutto un proclama patriottico, un’accorata esortazione agli italiani a unirsi e a sollevarsi contro lo straniero che da secoli divideva e opprimeva la nostra patria (non dimentichiamo che fu composto nel 1847, in pieno Risorgimento quindi.

La copertina dell’edizione del 1860 del “Canto degli Italiani” di Goffredo Mameli

 

Il testo di Mameli è un invito addirittura a combattere – memori della gloria antica di Roma – per ottenere l’indipendenza, già dai primi versi («Fratelli d’Italia/ l’Italia s’è desta/ dell’elmo di Scipio/ s’è cinta la testa./ Dov’è la vittoria? Le porga la chioma,/ che schiava di Roma,/Iddio la creò»). Oggi può sembrar quasi imbarazzante un tale inno che conserva la dolorosa memoria di secoli in cui l’Italia è stata terra di conquista delle varie potenze europee, passaggio preferito per il trasferimento di molti eserciti, basti pensare che il Cancelliere dell’impero austro-ungarico definiva la nostra penisola (in verità lui parlava bonariamente di “Italia”) «una semplice espressione geografica». Esso infatti continua:

«Noi fummo da secoli/ calpesti, derisi,/ perché non siam popolo,/ perché siam divisi./ Raccolgaci un’unica/ bandiera, una speme:/ di fonderci insieme/ già l’ora suonò/ Giuriamo far libero/ il suolo natio:/ uniti per Dio/ chi vincer ci può?».

Riprendendo così un tema  che riecheggia in tutta la nostra letteratura nazionale. Il tema dominante del testo di Mameli è quello della liberazione dell’Italia dallo straniero. C’è addirittura l’idea (mazziniana) che l’indipendenza e la sovranità dei popoli sia la volontà di Dio: «Uniamoci, uniamoci,/ l’unione e l’amore/ rivelano ai popoli/ le vie del Signore./ Giuriamo far libero/ il suolo natio».

C’è poi il riferimento storico alla battaglia di Legnano vinta dalla Lega Lombarda contro il tedesco, l’imperatore Federico Barbarossa nel 1176. Fino ad arrivare all’occupante austriaco, erede di quell’impero che per secoli ha cercato di imporsi in Italia: «Son giunchi che piegano/ Le spade vendute;/ Già l’Aquila d’Austria/ Le penne ha perdute» (il riferimento qui è alle truppe mercenarie – “le spade vendute” – che rendevano l’Austria debole di fronte ai popoli che combattevano per la propria indipendenza).

L’inno celebra quindi l’Italia e l’indipendenza nazionale, ovvero tutto quello che oggi, diciamo la verità, cade sotto l’accusa di “sovranismo”, “nazionalismo”. In effetti alla nascita della repubblica fu proposto di adottare come inno nazionale il “Va, pensiero”, tratto dal “Nabucco” di Giuseppe Verdi: probabilmente è molto più bello (e in uno storico sondaggio fu preferito dagli italiani), ma ha il grave handicap di essere un’antica idea della Lega, cioè quelli che alla nascita avevano come ragione sociale la divisione dell’Italia, anche se ora le loro idee sono molto più annacquate ed hanno indossato il doppiopetto governativo.

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