Casale, ritornano “ri Misi”. Dopo 10 anni.

Domenica 11 Febbraio le strade di Casale si trasformeranno nelle quinte di un teatro all’aperto per una delle più belle rappresentazioni popolari di questo periodo carnascialesco: la Cantata dei Mesi.

Sono passati 10 anni dall’ultima rappresentazione, era il 2014 l’ultima volta, ed oggi solo grazie alla caparbietà dell’oratorio “Ain Karem” e del gruppo ACR, si potrà di nuovo rivivere.

Certe manifestazioni sono sempre belle e diventano bellissime soprattutto pensando ai sacrifici fatti in termini di tempo per metterle in piedi.

La “Cantata dei Mesi” è un’allegoria dei mesi dalla funzione bene augurante per il nuovo anno, la cui diffusione raggiunge tutti i centri a vocazione agricola del nostro Paese.

Le sue origini risalgono addirittura al 1177 in base ad un documento pubblicato da Ludovico Frati (1) e conservato presso la biblioteca universitaria di Bologna.

Ma si ha la sensazione che queste rappresentazioni siano ancora più antiche.

Occorre ricordare che il primo calendario lunare usato dai romani fu quello di Romolo, il primo re di Roma.

In base a notizie piuttosto frammentarie, l’almanacco era composto da dieci mesi, da marzo a dicembre.

La necessità di allineare l’anno lunare con quello solare fu avvertita da Numa Pompilio, il quale aggiunse i mesi di gennaio e febbraio agli altri dieci.

In totale, l’anno durava 355 giorni, dieci in meno dell’anno solare.

Così, per compensare questa differenza, si ricorreva all’intercalazione di un mese straordinario di 22 o 23 giorni ogni due anni.

Il mese era noto come Mercedonio o Intercalare.

La cantata dei mesi contempla:
i 12 mesi dell’anno;
la figura di Capodanno nella veste di presentatore;
la maschera di Pulcinella nei panni di cerimoniere;
un personaggio raffigurante il “ru mese annascusu”.

Quest’ultimo è da considerare una riproposizione di “Mercedonio”.

Allora vi aspettiamo Domenica 11 Febbraio dalle 15:30 in poi.

1) Ludovico FratiUna ballata dei dodici mesi dell’anno in Giornale Storico della Letteratura Italiana XXXIV (1889), 277-279.

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