Saba e le “Cinque poesie per il gioco del calcio”

Umberto Saba (1883 – 1957) scrive, negli anni Trenta, le bellissime Cinque poesie per il gioco del calcio. In esse il poeta eleva il calcio a paradigma della capacità di farsi tutt’uno col popolo, di deporre l’orologio individuale, di sentirsi un insieme e realizzare uno dei pochi attimi sinceri, collettivi, del vivere umano. Nei versi di Saba si percepisce chiaro il profumo di un calcio di altri tempi, sempre più lontano da quello che viviamo ai giorni nostri. Questo sport, oltre a trasmettere passioni, emozioni, dovrebbe emblematizzare anche valori morali importanti, attraverso le “gesta”, in campo e fuori, dei suoi protagonisti. Le propongo qui perché ritengo possa essere salutare per lo spirito rileggerle di tanto in tanto. Violenze fisiche e verbali sono presenti ordinariamente nei più svariati contesti collettivi; ma “l’essere squadra” comporta per antonomasia l’eliminazione di ogni individualismo ed irrispettosità reciproca. Fa bene, credo, ricordarcelo. 

 

I – Squadra paesana

Anch’io tra i molti vi saluto, rosso-

alabardati,

sputati

dalla terra natia, da tutto un popolo

amati.

Trepido seguo il vostro gioco.

Ignari

esprimete con quello antiche cose

meravigliose

sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari

soli d’inverno.

 

Le angoscie

che imbiancano i capelli all’improvviso,

sono da voi così lontane! La gloria

vi dà un sorriso

fugace: il meglio onde disponga. Abbracci

corrono tra di voi, gesti giulivi.

 

Giovani siete, per la madre vivi;

vi porta il vento a sua difesa. V’ama

anche per questo il poeta, dagli altri

diversamente – ugualmente commosso.

***

II – Tre momenti

Di corsa usciti a mezzo il campo, date

prima il saluto alle tribune.

Poi, quello che nasce poi,

che all’altra parte rivolgete, a quella

che più nera si accalca, non è cosa

da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome.

 

Il portiere su e giù cammina come sentinella.

Il pericolo lontano è ancora.

Ma se in un nembo s’avvicina, oh allora

una giovane fiera si accovaccia

e all’erta spia.

 

Festa è nell’aria, festa in ogni via.

Se per poco, che importa?

Nessuna offesa varcava la porta,

s’incrociavano grida ch’eran razzi.

La vostra gloria, undici ragazzi,

come un fiume d’amore orna Trieste.

***

III – Tredicesima partita

Sui gradini un manipolo sparuto

si riscaldava di se stesso.

E quando

– smisurata raggiera – il sole spense

dietro una casa il suo barbaglio, il campo

schiarì il presentimento della notte.

Correvano sue e giù le maglie rosse,

le maglie bianche, in una luce d’una

strana iridata trasparenza. Il vento

deviava il pallone, la Fortuna

si rimetteva agli occhi la benda.

Piaceva

essere così pochi intirizziti

uniti,

come ultimi uomini su un monte,

a guardare di là l’ultima gara.

***

IV – Fanciulli allo stadio

Galletto

è alla voce il fanciullo; estrosi amori

con quella, e crucci, acutamente incide.

Ai confini del campo una bandiera

sventola solitaria su un muretto.

Su quello alzati, nei riposi, a gara

cari nomi lanciavano i fanciulli,

ad uno ad uno, come frecce. Vive

in me l’immagine lieta; a un ricordo

si sposa – a sera – dei miei giorni imberbi.

 

Odiosi di tanto eran superbi

passavano là sotto i calciatori.

Tutto vedevano, e non quegli acerbi.

***

V – Goal

Il portiere caduto alla difesa

ultima vana, contro terra cela

la faccia, a non vedere l’amara luce.

Il compagno in ginocchio che l’induce,

con parole e con la mano, a sollevarsi,

scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

 

La folla – unita ebbrezza- par trabocchi

nel campo: intorno al vincitore stanno,

al suo collo si gettano i fratelli.

Pochi momenti come questi belli,

a quanti l’odio consuma e l’amore,

è dato, sotto il cielo, di vedere.

 

Presso la rete inviolata il portiere

– l’altro- è rimasto. Ma non la sua anima,

con la persona vi è rimasta sola.

 

La sua gioia si fa una capriola,

si fa baci che manda di lontano.

Della festa – egli dice – anch’io son parte. 

***

Saba
“Il calcio è un linguaggio”

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